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Semplice, il loro mantra è quello di comprare strumenti che replicano degli indici di mercato (generalmente Index fund o Etf), diversificando su panieri ad ampia copertura, evitando quindi di fare scommesse su singoli settori, paesi o temi. La logica è quella di coprire più assets decorrelati fra loro, in modo da cercare di compensare l’eventuale discesa di prezzo di uno con la salita di un altro.
Di conseguenza i classici portafogli pigri o “lazy”, studiati per l’ investitore passivo, chi più chi meno contengono tutti un insieme di componenti: la componente azionaria (diversificata per paesi, settori, e volendo anche per capitalizzazione di mercato), la componente obbligazionaria (anch’essa spalmata su bond di varie scadenze e con varia natura: titoli di Stato, corporate, investment grade, high yield, tasso fisso, variabile, indicizzati all’ inflazione e così via); abbiamo poi altre componenti a completare i portafogli in questione, che in genere sono la liquidità, le commodities, i Reits, fino ad arrivare ai digital assets (criptovalute), che pur non essendo contemplate nei portafogli meno recenti, anche perchè di nuova generazione, si stanno facendo sempre più spazio nei portafogli.
L’ investitore passivo mixa quindi asset classes di questo tipo per costruire portafogli robusti, semplici ma allo stesso tempo profittevoli, che possano andare bene per ogni stagione di mercato, senza stravolgere il proprio approccio in corso d’ opera ma limitandosi a ribilanciare periodicamente il portafoglio,
Già nell’ implementazione però inizia a sorgere qualche problema, dovuto all’ impossibilità di attuare un protocollo totalmente passivo e alla necessità di dover fare qualche scelta attiva (anche abbastanza importante). Infatti nel costruire il portafoglio occorre decidere quanto allocare sulla componente azionaria, quanto sulla liquidità, sull’oro, sui bond ecc. La scelta di allocare un 60% sulle azioni piuttosto che un 50 o un 40% non è forse una scelta di tipo attivo? Ovviamente lo stesso vale per le restanti componenti.
Immaginiamo per pura semplicità di costruire un portafoglio allocando un 50% sull’azionario globale ed il restante 50% nell’obbligazionario globale.
Gli indici che compriamo oggi hanno la stessa composizione di quella che avevano 20 anni fa? Avranno la stessa composizione fra 10 anni? Certo che no.
Quello che intendo dire è che la costruzione degli indici e quindi la loro ponderazione sui diversi paesi, settori, è più dinamica e trendfollower di quanto si possa pensare. Guardiamo ad esempio l’evoluzione dei pesi dei vari settori all’ interno dell’ S&P 500 dal 1990 fino a tempi più recenti (non sono grafici aggiornatissimi ma servono per rendere l’ idea).

Ma di esempi se ne possono fare infiniti: guardiamo il peso dei diversi paesi inclusi nell’indice MSCI Emerging Markets al momento della sua costituzione (gennaio 1988) e più di recente (marzo 2018).

A livello di paesi leaders per quanto riguarda la capitalizzazione globale, oggi ci sono gli Usa al primo posto, che in un comune MSCI World pesano più della metà, ma non è sempre stato così: ad esempio durante la bolla del Nikkei di fine anni 80 era il Giappone ad essere al primo posto per capitalizzazione globale; molti dicono che nei prossimi anni sarà la Cina ad avere il predominio, chi lo sa.

Dunque gli indici si modificano molto spesso, ricordiamo poi che essi vengono ribilanciati periodicamente, quindi comprano qualcosa e vendono qualcos’altro; motivo per cui sono più attivi di quanto possano apparire. Se al loro ribilanciamento aggiungiamo anche il nostro, ecco che aumenta ancora di più la componente attiva di portafoglio.
In definitiva è possibile stabilire che non esiste una gestione passiva al 100%, sicuramente ci sono delle logiche operative che comportano meno decisioni in capo all’investitore, ma che incorporano sempre una componente attiva.
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